Stiamo osservando una delle opere identitarie della Galleria Estense di Modena, uno dei capolavori per cui vale la pena visitare il nostro museo. Fu Francesco I duca di Modena l’intelligente committente, proprio quel Francesco I ritratto meravigliosamente da Bernini e da Velasquez.

Ammiriamo così un dipinto che è sempre rimasto nelle collezioni degli Este, ad eccezione di un breve trip napoleonico, in Francia, tra il 1796 e il 1815. Questa mirabile tela è stata studiata, tra gli altri da Pallucchini (1945, p. 138, n. 308) e da Salerno (1988, p. 242, n. 151), il quale fa cenno ad un inventario del 1692 (n. 94) che ne indica la presenza nel Palazzo Ducale di Sassuolo, come spiegato anche da Massimo Pirondini. Era incastonata in un ciclo che decorava la «Camera dei Sogni» nell’«appartamento stuccato». La tela fu infatti portata a Modena, nel cuore delle collezioni estensi, solo dopo che Francesco III nel 1745 ebbe venduto ad Augusto III di Sassonia cento capolavori della collezione estense (la cosiddetta «vendita di Dresda»), la maggior parte dei quali sono oggi conservati presso la Gemäldegalerie, appunto, di Dresda.

Le note tecniche, inevitabili, invitano ancora di più lo sguardo all’esplorazione visiva. Seguiamo perciò l’indicazione di Venere, suggerita dal gesto della mano destra della divinità, raffigurata nuda, appena coperta sulle gambe da un serico mantello. Cupido sta per lasciar partire la sua freccia verso il riguardante, che è così invitato a identificarsi nel committente dell’opera, Francesco I d’Este in persona. Il gioco dell’invenzione artistica lascia irrompere, nello spazio del dipinto, un Marte in armatura, che accentua il senso di apparizione improvvisa, in una sorta di inatteso colpo di scena.

Guercino dipinse questo capolavoro per il duca nel 1633, durante uno dei suoi soggiorni presso la corte di Modena. L’espressione serena di Cupido dimostra la consapevolezza del suo potere, quel potere secondo cui le sue frecce, come narrano le fonti letterarie, possono piegare persino l’impeto del dio della guerra. E del resto la figura di Marte sembra esprimere preoccupazione per le conseguenze dei dardi d’amore, di cui anch’egli ha provato le conseguenze.

Il dipinto venne pagato a Guercino 126 scudi, dal guardarobiere ducale Cesare Cavazza, il 18 gennaio del 1634, come è registrato nel suo «Libro dei conti». La commissione da parte del duca Francesco I d’Este la si può dedurre anche dal simbolo dell’aquila estense, raffigurato con evidenza sulla faretra in primo piano a destra, su cui Venere appoggia la mano.

Nel 1770 Gian Filiberto Pagani segnala la tela come sovrapporta all’ingresso della sesta camera dell’appartamento ducale di Modena. L’opera è stilisticamente collocabile in quella che Mahon definisce «fase di transizione» dell’artista, che va dal 1623, dopo il ritorno da Roma, al 1634, quando il pittore si orienta sul linguaggio classico.
Ma ciò che per noi più affascina è la bellezza senza tempo che invita il pubblico a una sosta che ripaga pienamente lo spirito.

Gianfranco Ferlisi

 

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