Velázquez e il ritratto di Francesco I d’Este (1638)
Abbiamo già parlato di Francesco I d’Este qualche mese fa, sempre qui sul nostro magazine. Oggi spostiamo l’attenzione sulle qualità formali del dipinto che meglio lo ritrae e che dal pieno Ottocento, dopo che fu ricomprato per la Galleria Estense, ha acquisito crescente importanza in parallelo alla riscoperta del suo autore, Diego Velázquez, su cui iniziavano a concentrarsi un numero impressionante di studi e monografie consacrandolo come uno dei massimi pittori di ogni tempo.
La storia del capolavoro modenese in buona parte è nota. Più che un’opera definitiva, è un ritratto che Velázquez realizzò velocemente riutilizzando una tela precedentemente dipinta, e poi abrasa (lo sappiamo dalla radiografia), per immortalare i tratti e la personalità di Francesco quando per alcuni giorni fu ospite alla corte di Spagna. Poco più tardi, in circostanze mai precisate, l’opera giunse nella collezione estense dove a stretto giro si contarono altri tre ritratti di Velázquez, questi ultimi tutti destinati a finire a Dresda un secolo più tardi.
Unico superstite in Galleria Estense di questo favoloso episodio di committenza e collezionismo spagnoli, il ritratto del duca Francesco esprime il linguaggio di Velázquez nella sua inflessione più italiana, e in particolare veneziana. Proviamo a osservarlo da vicino suggerendo un paio di spunti di lettura.
Diego Rodríguez de Silva y Velázquez, Ritratto di Francesco I d’Este, olio su tela, 1638
Modena, Galleria Estense
Anzitutto la scelta dei colori, netta ed essenziale. La tavolozza si limita a pochissimi pigmenti fondamentali impastati con legante oleoso: un nero di carbone e una terra verde per le aree scure, il bianco di piombo e il rosso della lacca di garanza per dare vita alla figura del duca. Ne risulta l’immagine di un giovane che ci scruta con occhi penetranti, in posa ufficiale ma più emozionato di noi: Velázquez infatti seppe cogliere, nel rossore che palpita sul viso del duca, l’eccitazione e la vanità di un regnante ambizioso e inesperto, che in quel momento toccava l’apice di un’effimera gloria internazionale che non avrebbe mai più conosciuto. Questa capacità di ridurre all’osso la scala cromatica facendo emergere per altre vie la complessità di un ritratto, è una delle cifre più tipiche di Velázquez e richiama capolavori memorabili come il “Pablo de Valladolid” del Museo del Prado, giocato sui neri e i bruni, o il “Filippo IV a Fraga” della Frick Collection, memorabile intreccio di rosso e argento…
In secondo luogo, la tecnica “alla veneziana”. Dopo la giovinezza a Siviglia, Velázquez imparò ad amare la pittura veneta del Cinquecento nelle collezioni reali di Madrid, dove si era trasferito a ventitré anni come pittore di corte. Qualche anno dopo coronò il suo sogno di visitare Venezia e l’Italia nel corso di un primo lungo viaggio di studio finanziato direttamente dal sovrano (1629-31). Il segreto del dipingere a macchia, facendo prendere vita autonoma al colore prescindendo dalle linee costrittive di un disegno preparatorio, fu una lezione che Velázquez fece propria e non abbandonò più. Ecco perché analizzare da vicino le sue opere rivela spesso uno sconcertante grado di informalità, con i colori che si confondono da liquidi a grumosi, da torbidi a trasparenti, e poi si ricompongono miracolosamente in forme riconoscibili e perfette non appena ci allontaniamo alla giusta distanza di osservazione. Guardiamo ad esempio il pendente con il Toson d’oro ricevuto da Francesco a Madrid, qui unica nota a uscire dalla triade di rosso-nero-bianco del ritratto, resa come poco più che un insieme di chiazze gialle informi: esattamente come aveva fatto Tiziano nel suo ritratto equestre di Carlo V d’Asburgo, un’opera capitale per i futuri sviluppi del genere ritrattistico.
A sinistra: Tiziano, Ritratto di Carlo V a Mühlberg (particolare), olio su tela, 1548
Madrid, Museo del Prado
E lo stesso vale per la fusciacca che avvolge il busto del duca, grondante di colore e così lontana da qualunque studio accademico di panneggio. La sintesi e la capacità evocativa hanno più forza di una riproduzione esatta.
Si conoscono altri ritratti del duca Francesco, anche assai importanti come il grande gruppo di famiglia dipinto da Nicolas Régnier, ancora oggi in Galleria Estense. Lo scarto è però evidente, trattandosi di opere che non si spingono oltre una corretta interpretazione dello stile aulico di età barocca. Perfino il capolavoro sommo della collezione, il busto in marmo di Bernini, sposta volutamente la nostra attenzione sull’apoteosi di un condottiero ideale, che guarda un orizzonte lontano e non sembra appartenere a questa terra. A Modena non esisterà più alcun ritratto, ducale o di chiunque altro, capace di restituire una presenza umana viva come il Francesco I di Velázquez.
Federico Fischetti
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