Una mostra di ricerca per indagare un ciclo di Santi eremiti di ascendenza caravaggesca.
Si è aperto il 25 marzo un nuovo capitolo nel ciclo di mostre dossier inserite a metà del percorso di visita della Galleria Estense (“Indagini intorno a Giovanni Serodine, 1600-1630. I santi eremiti della Galleria Estense e della Certosa di Pavia”, a cura di Federico Fischetti ed Emanuela Daffra, 25 marzo-26 giugno 2022). Come già avvenuto nel recente passato, vengono presentate opere appena uscite dai laboratori di restauro (Cristina Lusvardi di Reggio Emilia, per il dipinto della Galleria Estense; Studio Luigi Parma di Milano, per i tre dipinti del Museo della Certosa di Pavia).
Come però il titolo della mostra suggerisce, si tratta di un lavoro di “indagini” compiuto solo in parte e di cui la mostra in sé costituisce una tappa ulteriore e indispensabile. Una mostra di ricerca, infatti, che nel mettere a confronto per la prima volta una serie coerente di opere, una accanto all’altra, permette quell’indagine visiva che è il cuore del lavoro degli storici dell’arte. Dunque una mostra di interesse per gli specialisti, ma in grado di parlare anche a tutti i visitatori del museo, che possono ammirare quattro dipinti di grande impatto e fortemente accomunati da una matrice di “naturalismo” lombardo.
Il primo, da cui ha preso le mosse il progetto, è il cosiddetto Santo scrivente della Galleria Estense (inv. 188), uno dei pezzi più enigmatici dell’antica collezione ducale di Modena. Il protagonista è un personaggio barbuto non meglio identificato, ruotato e curvo in avanti come preso improvvisamente dall’urgenza di scrivere. Sembra assorto a lavorare seduto su delle rocce, immerso in un paesaggio a stento leggibile nella pittura corrosa dal tempo. Asceta, filosofo, santo, ci ignora ma cattura il nostro sguardo con forza magnetica. Con chi va identificato? Come è giunto nelle collezioni estensi? Una voce inventariale del 1663 registra nel Palazzo Ducale di Modena, nelle Camere da Parata del duca, “Sopra una porta un quadro con cornice dorata dipinto in tela da Michel Angelo da Caravaggio. Rapresenta S. Agostino che scrive”. Che si tratti proprio del nostro, citato in un’epoca in cui il nome di Caravaggio era spesso usato per qualificare i dipinti dei suoi numerosi seguaci ormai dimenticati? Sta di fatto che Roberto Longhi, già nel 1924 e con successive conferme, attribuì l’opera a Giovanni Serodine, pittore romano-ticinese che sembrava vittima di un “prodigio della malasorte” date le scarse notizie antiche rimaste sulla sua vita e attività, ma a cui lo studioso restituiva la primaria statura di originalissimo interprete del linguaggio caravaggesco. Con alterne fortune, tale attribuzione si è trasmessa fino alla più recente fra le mostre a lui dedicate (Rancate, Pinacoteca cantonale Giovanni Züst, 2015, a cura di Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa), ma non ha mai avuto conferme decisive, e oggi solleva piuttosto seri dubbi. Rispetto infatti a come Serodine raddensa i panneggi e gli incarnati con fitte trame di tocchi e velature, sembra troppo lontano questo pennellare sinuoso, nelle linee regolari delle rughe del volto, o nella veste costruita come un esoscheletro su cui sbatte la luce. Ma nella mostra, per non complicare i già sintetici testi di sala con troppe ipotesi e punti interrogativi, si è scelto di attenerci alla bibliografia corrente: dunque l’opera è ancora assegnata al pittore ticinese (qui considerato nato a Roma nel 1600, e nemmeno su questo i dati storici concordano!), consapevoli che l’occasione è giusta per un affondo da cui potrà sortire anche un nuovo nome.
Il secondo dipinto, in prestito dal Museo della Certosa di Pavia come i successivi due, è qui esposto come documento prezioso per comprendere meglio il primo. Si tratta infatti dello stesso soggetto, copiato nei minimi dettagli, ma a figura intera in una tela di dimensioni più che doppie. La qualità tradisce lo sforzo di un diligente copista e nulla più, ma per noi è importante leggerne anzitutto l’iconografia, con i libri rovesciati a terra in primo piano e la candela spenta montata su un candeliere che si scorge al margine destro (tutte parti tagliate via nel dipinto di Modena). Corre alla mente il “San Girolamo” dipinto da Caravaggio a Malta nel 1608 e ancora conservato presso il museo della cattedrale a La Valletta. Viene da lì questa posa col busto dello scrivente in contrapposto rispetto alle gambe? E lo stesso candeliere spento, che induce a riconoscere un san Girolamo anche nel dipinto estense (e ovviamente nella sua copia della Certosa)? In effetti questo dettaglio è un suo frequente attributo iconografico, ricordato anche nella trattatistica (es. J. Molanus, De picturis et imaginibus sacris, Lovanio 1570, LXIX).
Il confronto con la copia ci conferma che in origine anche la tela estense avesse questo formato più grande, grazie a un particolare decisivo svelato in radiografia e confermato in corso di pulitura. Un brano del paesaggio che vediamo in basso a sinistra nella copia, dove si scorge l’increspatura di un corso d’acqua fra due alberi, esisteva anche nella tela di Modena: fu poi recuperato e trapiantato a coprire, presumibilmente, un’antica lacerazione. Lo si trova verso l’angolo in alto a destra, ora non più riconoscibile perché intonato allo sfondo in sede di restauro, ma ovviamente ben evidenziato nella documentazione tecnica. È dunque sicuro che a poco tempo di distanza dalla sua esecuzione, il prototipo fu pesantemente danneggiato e si decise di sacrificarne una gran parte, adattandone i resti in questo formato longitudinale (forse proprio il “sopra porta” dell’inventario modenese del 1663?) reimpiegando un suo stesso frammento come toppa per uno squarcio.
Più ci si addentra nell’osservazione di queste opere, finalmente tornate a parlarsi una vicina all’altra, e più si familiarizza col peculiare modo di dipingere dell’autore originale. La sorpresa maggiore sta nel riscontrare forti elementi comuni nel terzo dipinto in mostra, ovvero il “San Giovanni Battista”. Si tratta di un’opera pressoché inedita, in quanto letteralmente riesumata grazie a un felice e fortunato restauro che ha rimosso una pesante stuccatura e ridipintura antica ormai degradata. Al di sotto, la stesura originale attendeva di tornare alla luce, e il risultato è sbalorditivo e tutto da valutare. Numerosi brani del paesaggio richiamano la stessa tecnica usata nel dipinto modenese (nella costruzione del fogliame con rialzi puntiformi di luce, nella vegetazione suggerita con liquide pennellate scure). La mano destra del giovane Battista, inaspettatamente rugosa e così simile a quelle del san Girolamo, ci indica il dettaglio forse più notevole, quel vero e proprio “ritratto” di agnello dallo sguardo quasi umano.
Al confronto, l’ultimo dipinto della serie, un “San Paolo Eremita”, si mostra con tratti stilistici decisamente diversi. Il paesaggio è condotto con un gusto meno naturalistico e più narrativo, assemblando elementi convenzionali ed esotici (le palme e le conifere, la campagna e gli strapiombi rocciosi). La composizione ricalca quella del dipinto precedente, ma la figura del vegliardo dallo sguardo allucinato e le mani giunte riecheggia un tipo molto presente nella produzione pittorica di Giuseppe Vermiglio (Milano, 1587 ca. – Torino?, post 1635). È il secondo nome d’autore chiamato in causa e che tradizionalmente è associato a questa serie della Certosa di Pavia. In effetti il pittore lavorò per i certosini, coadiuvato da aiuti di bottega, intorno alla fine degli anni ’20 del Seicento. Anch’egli, come Serodine, aveva esordito a Roma partendo da una stretta adesione ai modi di Caravaggio, e poi, rientrato in Lombardia, si era indirizzato verso un linguaggio meno drammatico e più intonato alla tradizione locale, sull’esempio di un maestro come Daniele Crespi.
La mostra porta dunque in Galleria Estense uno spaccato godibile di pittura poco rappresentata nelle collezioni del museo, dove non mancano tuttavia importantissime testimonianze caravaggesche (dai “Bevitori” di Nicolas Tournier, alle nature morte del Maestro di Hartford, al meraviglioso “San Francesco in estasi” che ancora sfugge ad ogni tentativo di attribuzione).
Degli esiti del progetto sarà dato conto compiutamente in sede scientifica, raccogliendo e valutando i contributi che ci auguriamo la mostra possa stimolare. Visitandola nel giorno dell’inaugurazione, ad esempio, Gianni Papi ha proposto il nome di Hendrick ter Brugghen per il dipinto della Galleria (nome già evocato ma poi respinto al tempo della mostra “Giovanni Serodine” del 1993, quando però mancavano elementi importanti per la conoscenza della produzione italiana del maestro olandese, che oggi lo stesso Papi sta ricostruendo). Nell’attesa di sviluppi, festeggiamo il ritorno in Galleria Estense di un’opera di grande rilievo che ha riacquistato leggibilità portando con sé un primo bagaglio di nuove conoscenze.
La massima gratitudine va alla Direzione Regionale Musei Lombardia, diretta da Emanuela Daffra, responsabile dei restauri delle opere della Certosa affidati al laboratorio Studio Parma di Milano, e quindi concessi in prestito.
In parallelo, il lavoro sul “San Girolamo” della Galleria Estense è stato condotto egregiamente dal laboratorio di restauro Cristina Lusvardi di Reggio Emilia, col determinante supporto delle indagini diagnostiche eseguite da Diagnostica per l’Arte Fabbri di Davide Bussolari (Campogalliano), e quindi da Gianluca Poggi (Segrate e Università degli Studi di Bergamo) e Maria Letizia Amadori (Università degli Studi di Urbino). Un percorso di incessante scambio di idee e conoscenze, per il quale sono grato anche alla collega restauratrice Lucia Anna Margari delle Gallerie Estensi che ha condiviso con me la direzione dei lavori.
Federico Fischetti, 30 marzo 2022
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