Matteo Loves (Colonia – Bologna, 1647 ca.), Ritratto di fra Giovan Battista da Modena, già duca Alfonso III d’Este, 1635, olio su tela, 280 x 176 cm (sala dei ritratti)
Al centro del dipinto è rappresentato, in abito da cappuccino, Alfonso III, duca di Modena, figlio di Cesare, primo duca di Modena, e di Virginia de’ Medici. L’uomo ha lo sguardo rivolto verso di noi e indica con l’indice della mano destra il crocifisso che stringe nell’altra mano. Poggia il piede sinistro sullo scettro e sulla corona. Ebbene, il duca, entrato nell’ordine dei cappuccini (1629) dopo aver abdicato in favore del figlio Francesco I, dichiara esplicitamente quanto gli è accaduto: la chiamata dell’Eterno, una vocazione travolgente, la conversione e l’abbandono di ogni ricchezza. Il duca si fa povero, rinuncia, secondo le modalità francescane (quello dei «cappuccini» è uno dei tre ordini mendicanti maschili che oggi costituiscono la famiglia francescana») ai beni del mondo. Matteo Loves ritrae il duca a sei anni di distanza dalla professione religiosa. L’opera fu infatti dipinta il 7 ottobre 1635, come informa il cartiglio appeso alla parete, sulla destra: «Aetatis suae anno XXXXIV […]» Alfonso III, ovvero fra Giovan Battista da Modena, aveva quarantaquattro anni quando volle lasciare testimonianza della sua scelta radicale con questo ritratto che lo immortala con lo scuro saio, in un muto ma esplicito dialogo col riguardante. Alfonso, sullo sfondo cupo e notturno che si apre alle sue spalle, calpesta i simboli del potere e si allontana da tutte le vanità terrene e cortigiane: insegne, cannoni, cavalli, trofei, armi, armature, libri, spartiti, strumenti musicali, sfere armillari e la varia molteplicità di cose che un aristocratico principe poteva avere. Su un tavolo una clessidra e un teschio, formano un lampante memento mori. La fede additata con la destra, nonché (visibili in alto sullo sfondo del cielo) il volo del pellicano, emblema cristologico, e la nottola, simbolo della filosofia e della saggezza sono ora l’alternativa possibile. La religiosità, la saggezza e la morte: ecco il tema dell’opera. Lo scrutare nostra «sorella morte corporale», poteva prendere ispirazione dal salmo 88,49: «Quale vivente non vedrà la morte, sfuggirà al potere degli inferi?», ma l’iconografia riprende soprattutto la tematica della vanitas, intesa come vacuità e precarietà della vita, della caducità delle cose terrene. Perché quaggiù la natura effimera della vita terrena è sempre vanità. L’epistola ai Fillippesi («quae mihi fuerunt lucra […]»), aperta non casualmente su un leggio, rimanda a san Paolo e al suo messaggio: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno […]», perché c’è un luogo oltre la terra dove un’anagrafe nuova ci identifica e dà un valore perenne a quello che siamo qui.
Gianfranco Ferlisi
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