Charles Le Brun, Mosè difende le figlie di Jetro, 1687, olio su tela, 113 x 122 cm (inv. R.C.G.E. n. 238)
Spigolando (in occasione della giornata internazionale del cane) davanti al dipinto Mosè difende le figlie di Jetro…
«Un egiziano ci ha difese dalla violenza dei pastori, ed inoltre ha attinto per noi ed abbeverato il gregge»: così le sette figlie di Ithrò (Jetro) riferiscono, nella tradizione, i fatti accaduti (Esodo, 2, 19). Le donne osservano, con trepida partecipazione, la prestanza di Mosè e finanche il loro cane parteggia per il futuro liberatore di Israele.
E, a proposito di cani, ovviamente nel Pentateuco non esiste alcun riferimento cinofilo. Ci si potrebbe chiedere il senso della presenza di un cane in tale episodio biblico, anche in considerazione del fatto che tali animali non godevano di particolare stima nel periodo mosaico. Ma l’opera è realizzata alla fine del XVII secolo e dunque esprime la concezione del mondo e della società in cui è stata prodotta e vale la pena di insistere sul fatto che non siamo davanti ad un capriccio del pittore. Il dipinto che osserviamo, infatti, insieme alle «Nozze di Mosè e Sefora» dello stesso autore, prima di giungere a Modena, a titolo di risarcimento delle spoliazioni napoleoniche del 1796, ornava il «petit appartement du roi» della Reggia di Versailles di Luigi XIV (Venturi, 1882, p. 413). È dunque ovvio che il tema biblico accolga riferimenti legati alla vita di corte e ai piaceri del re, che amava i cani e tutti gli animali possibili. A Versailles c’era spazio per tremila e più colombi, per decine di montoni di Barberia, per specialissimi tori e vacche di Fiandra e d’Olanda «delle quali a terra il sole immensa ombra manda», e poi per cammelli e dromedari e persino per un elefante, dono del principe del Portogallo.
Sono questi solo alcuni degli ospiti della Ménagerie di Versailles, uno zoo ante litteram progettato da Louis Le Vau. È anche per questo che le figlie di Jetro, nel dipinto, non portano a pascolare un semplice gregge di ovini e caprini (come sarebbe stato logico nel contesto di Aqaba) ma animali che sono il vanto del re e che qui Le Brun immortala. A questo punto occorre citare Pieter Boel, che faceva parte del team dei collaboratori di Charles Le Brun per la Manifattura dei Gobelins e che disegnava e dipingeva i suoi animali, dal vero, proprio nel serraglio di Versailles, per rappresentarli nelle loro pose naturali e caratteristiche.
Ma ritorniamo ad osservare il cane: certamente un cane da caccia, la cui razza può essere individuata (con qualche margine d’errore) solo dal muso e che ci conduce a parlare degli «chiens blancs du roy» detti anche «chiens blancs greffiers», creati da Luigi XII di Francia (Blois, 1462 – Parigi, 1515) e utilizzati nei branchi reali per più di due secoli (L’encyclopédie mondiale des chiens: les 331 races reconnues à travers le monde, Paris, De Vecchi, 2008). Questi erano cani apprezzatissimi da parte di Luigi XIV, che diede forte impulso alla crescita dei canili reali di Versailles, in funzione delle battute di caccia a cavallo, privilegio pressoché esclusivo della nobiltà fino al 1789.
Accanto alle figlie di Jetro l’artista colloca dunque, a mio parere, proprio uno di questi esemplari, al fine di esaltare un legame affettivo e una sensibilità che travalica gli aspetti dell’opportunità e che mette in evidenza i legami talvolta viscerali del monarca. Rammento, solo per testimoniare tale forma di attaccamento ai cani, che François Desportes, altro pittore animalista, realizzò numerosi dipinti per adornare le varie residenze reali (Versailles, Marly, Meudon, Compiègne e Choisy) di Luigi XIV. Tra questi spiccano i ritratti dei suoi tanti cani preferiti, di cui restano alcuni loro nomi: Zerbine e Jemite, Pompée e Florissant, Muscade ed Hermine, Merluzine e Cocoq,… Evidenti testimonianze di tale affinità con il mondo animale e con i cani in particolare.
Charles le Brun, nell’interpretare questo episodio biblico, va dunque oltre la narrazione dell’Esodo per lasciar intravvedere la dorata vita di corte.
Ma diamo un ultimo sguardo alle sette donne del dipinto, in cui compare, ovviamente, Zipporah (Sefora) con una veste azzurra e una candida camicia, futura moglie di Mosè, bionda come una diva. Il nome della bella Zipporah (צִפּוֹרָה), poi, in ebraico significa «passerotto» (spero che ciò allieti cinofili e animalisti) e ci permette di concludere con una scherzosa immagine amorosa, spero non irriverente: quella di un Mosè che, come gli innamorati di oggi, chiamasse la sua donna dalla pelle scura (certo non bionda): «passerotto mio».
Ma ora è davvero tempo di chiudere. Bellezza dell’arte! Partendo da un’immagine biblica si è arrivati ad aprire un altro orizzonte in cui un elemento non certo primario, il cane, ha assunto un’importante funzione iconografica: questo apparente complemento della mise en scène ha generato infatti possibilità interpretative inaspettate, e comunque congrue, sia legate sia alla personalità dell’artista sia a quella del committente. E, coerentemente, a tutti, infine, auguro una buona “Giornata Internazionale del Cane”, un appuntamento diventato un rendez-vous imperdibile per tutti gli amanti degli animali del mondo.
Gianfranco Ferlisi
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