La sapienza scenografica, che dalle quadrature si dispiega verso tutti i possibili artifici prospettici, trova lo spazio della meraviglia nel «Salone delle Guardie», realizzato, tra il 1647 e il 1648, da Angelo Michele Colonna (1604-1687) e da Agostino Mitelli (1609-1660), due quadraturisti che, alla fine di questa impresa estetica, «il Velazquez volle condurre con sé in Ispagna». Come sottolineava il Fabrizi: «la massima parte de’ dipinti della magnifica sala sono lavoro degli stessi pittori Colonna e Mitelli; ma vi posero ancora opera e mano Giacomo Monti e Baldassare Bianchi bolognesi essi stessi, e valorosi scolari de’ due eccellenti maestri» (Giuseppe Fabrizi, Sposizione delle pitture in muro del Ducale Palazzo nella nobil terra di Sassuolo, grandiosa villeggiatura de’ serenissimi principi Estensi, Modena, 1784, p. 6).
Nel salone, nonostante la progettazione a quattro mani, si respira una perfetta coerenza architettonica e una altrettanto perfetta integrazione tra figure e quadratura, tanto da far quasi apparire l’opera come frutto di una regia unitaria. Il «Salone delle Guardie» è senz’altro luogo di meraviglia e d’incanto: alle sue testate, quelle che portano rispettivamente all’appartamento del duca e della duchessa, si aprono le complessità spaziali e disorientanti di ambienti immaginari, creati con fughe di colonne di verde malachite verso vani che si dilatano a dismisura, in un illusionismo che si mantiene entro le coordinate del verosimile e che, appunto per questo, esalta il gioco degli inganni. L’apertura reale è sovraccarica di ornati: un putto con ghirlanda che occulta il punto di fuga, vasi, conchiglie, piccoli fauni che recano ricche cornucopie. Di lato Loreto, il pappagallo, garbatamente appollaiato sulla balaustra, rammenta a un cucciolo lo spirito irrequieto dell’architettura barocca, che amava sfondare le pareti lisce per raggiungere, a forza di effetti di trompe-l’oeil, la moltiplicazione degli spazi, in una corsa verso lontananze ignote e suggestive. Il gran teatro della meraviglia barocca risale qui lungo le panoplie, fino a condurre alle balaustre degli ordini superiori e ai personaggi che, tra un palco e l’altro, vi si affacciano. Due putti, posti sullo stesso livello, nella tribuna della duchessa, stendono una grande cortina di velluto vermiglio, con l’aquila estense che racchiude lo stemma, mentre, nel palco vicino, un cortigiano munito di lente osserva, in attesa, quanto accade nel salone: si sente una fioca voce aleggiare sull’immensa arte prediletta dal duca. Si è fermato il tempo, mentre ch’io scrivo, di questo antico mondo. Come il cortigiano anch’io attendo e sogno: tra poco arriverà Francesco, il folto crinito! E così viene piacevole – e speriamo non irriverente – immaginare che, più sotto, Loreto ripeta incessantemente con voce gracchiante, per meglio ribadirle, le parole di Adolfo Venturi «Le ripartizioni dei piani [gra, gra] come i più piccoli ornati, la borchia nella formella di soffitto, lo stemma estense, le metope e i triglifi d’una trabeazione, servono [gra, gra] al prodigioso, quasi acrobatico, esercizio prospettico, volto a creare suddivisioni di spazio, frazionamento di piani, [gra, gra] varietà di aggetti e di cavi, [gra, gra] scorci di effetto illusionistico sorprendenti» (Adolfo Venturi, Affreschi nella Delizia Estense di Sassuolo, in «L’Arte», XX, 1917, pp. 65-78). Una perfetta descrizione, come si evidenzia, che Loreto non poteva non fare propria.
Lo sguardo sbircia, poi, per usare le parole del Fabrizi, poco oltre, «negli estremi delle laterali pareti prossimi agli angoli della Sala medesima». Sono qui rappresentati «diversi musici e suonatori in atto questi di suonare strumenti a corda, e da fiato, e quelli di cantare sovra note musicali, ma in aspetto di giocondità, ed in attenzione di osservare fra loro la misura e l’unisono. La varietà delle idee di queste figure, ed un non so che di determinato, e finito, e molto più la qualità di certi volti noti patri, e nazionali fanno credere che siano ritratti di altrettanti musici, e suonatori, che erano in que’ tempi all’attual servigio di Francesco primo». Grande, in effetti, anzi, grandissimo il virtuosismo del suonatore di «chitarrone», che esce dalla parete dipinta e che, sollevando graziosamente una gamba, invade lo spazio reale. Lo scavalcamento della transenna è necessitato dalle notevoli dimensioni del manico di uno strumento che contava ben 14 corde. Pittura di figura assai raffinata quella sotto i nostri occhi, resa con estrema libertà del ductus pittorico: macchiette «di genere» in cui sembra di scorgere una ispirazione veneta, con vaghi richiami al Veronese (pressoché certa la mano felice del Colonna). Tutt’intorno la lunga e solida trabeazione marca il primo piano della sala, con le sue mensole fittizie alternate a un giglio (citazione dei gigli d’oro, concessione del re di Francia, che, dal 1431, campeggiano sullo stemma estense) e a un mascherone dorato. Dalla parte opposta, una quasi speculare simmetria ci porta alla «testata del duca». Qui incuriosisce un paggio che, sul parapetto, gioca con una scimmietta.
Ovunque, nel fasto scenografico e nell’opulenza cromatica, si celebra la magnificenza del committente e dei Virtuosi della sua casata. Sollevando lo sguardo in alto, poi, si trova e si capisce il senso di quanto ci sovrasta nello sfondato della volta, in cui campeggia un Apollo al quale le muse presentano le opere letterarie patrocinate dagli Este. Tutto, tra passato e presente, dunque, evoca e celebra qui l’intimo rapporto esistente fra il mecenatismo culturale degli Este e la grandezza dei poeti, dei letterati, degli artisti, degli studiosi, dei protagonisti delle Arti amati e protetti dalla corte Estense.
È ancora Giuseppe Fabrizi a parlarcene: «le figure dello scudo di mezzo della Gran Sala sono del Colonna. In esso veggonsi leggiadramente dipinte, e magistralmente collocate, e disposte le nove muse, Dee delle scienze, e delle Arti, con i simboli loro attribuiti, ed Apollo loro Nume. Ognuna di esse ha presso di sé o tra mano un libro segnato a grandi caratteri indicante un’opera di un autore suddito, o addetto immediatamente al servigio de’ serenissimi estensi; opera che risponde all’Arte, o alla Scienza, alla quale ciascuna musa rispettivamente presiede. Clio ha la Storia del Pigna; Melpomene il Torrismondo del Tasso; Talia le Commedie di Ludovico Ariosto; Euterpe la Teorica della musica di Ludovico Fogliani modenese; Tersicore li Madrigali di Annibale Pocaterra Ferrarese; Erato le opere del cavalier Guarini; Calliope l’Orlando Furioso di Lodovico Ariosto, ed il Goffredo di Torquato Tasso; Urania Antonio Montecatino de’ Coclo; Polimnia la Retorica del Castelvetro.
Nello scudo a destra della stessa volta è dipinto mirabilmente Mercurio volante coll’elmetto, e li talari alati avendo in mano il solito caduceo, e non molto lungi da lui mirasi il gallo, segno di vigilanza essendo Mercurio messaggiere di Giove. Nell’altro a sinistra Giunone sedente sopra una nube con appiedi il solito pavone; opera non del Colonna, la quale però non cede punto al paragone del dipinto dello scudo di mezzo, e che si crede essere del Monti suaccennato».
In tutta questa colta e scenografica complessità sono numerose le tipologie araldiche accoppiate all’ironica raffigurazione di amorini, che giocano con le aquile bianche e che si sporgono incautamente dal cornicione, offrendo una pausa scherzosa e alleggerendo il piacere della visione. E si potrebbe persino scrivere un trattato di araldica continuando ad osservare il proliferare di stemmi: in alto «dietro a quattro lunette sono dipinte a grottesco l’Armi Reali di questa Serenissima Casa in varie maniere, cioè l’Aquila bianca in campo turchino non prima usata, che dal glorioso signor Duca Francesco primo. L’altra è quella che sogliono usare li secondi geniti, cioè l’Aquila bianca con li tre gigli d’oro donati da Carlo Sesto Re di Francia. Terzo l’Aquila bianca interzata con l’Aquila imperial nera donata da Federico Terzo Imperatore al signor Duca Borso. Nell’ultimo canto si vede l’Aquila bianca incorporata con li tre gigli Reali di Francia insieme con le due chiavi pontificie donate da Pavolo primo al sopradetto signor Duca Borso, le quali Armi vengono sostenute da alcuni puttini ridenti che con festoni e cartelle alzano una corona d’oro» (Guglielmo Codebò, Descrizione del sontuoso Palazzo di Sassuolo di Sua Altezza Serenissima di Modana fatta da me per mia sola, e spontanea curiosità, non per ordine alcuno; insieme con la pianta dell’istesso Ducal Palazzo, (Modena, Biblioteca Estense Universitaria, ms. a M 7 7 [post 1662]).
Con le annotazioni del Codebò, sbirciando intorno alle due grandi portiere laterali, ci avviciniamo a un altro dettaglio della glorificazione estense: «tra l’ingresso della sala e lo sforo sono dipinte quattro arti cioè Pittura, Scultura, Geometria et Architettura tenendo sotto delli loro piedi alcune cartelle e sono dipartite nel modo seguente: alli lati della porta dell’ingresso a mano destra sta collocata la Pittura, a sinistra la scultura, sì come al lato destro dello sforo la Geometria, et a sinistra l’Architettura, havendosi voluto significare che in questa Reggia sono indifferentemente abbracciate tutte le virtù et arti più nobili. Sono ambedue le porte sostenute da due colonne di bianco marmo che accompagnano la ricchezza di quello della descritta ringhiera, et in faccia della porta principale sta un’altra ringhiera la quale rimira il sopradetto cortile, distesa anc(h)’essa con una simile ballaustrata di marmo fino e nobilitata con statue che non invidiano la gloria dell’antica etade».
Questo nostro viaggio immaginoso, aggrappato ai fili delle letture, della memoria e delle immagini che ci sfilano sotto gli occhi, fili impregnati di vita vera, di storie e di arte, giunge a conclusione. Possono esserci altri mille modi (anche assai più tecnici ed eruditi) per accostarsi a questa sala, per rileggerne senso, contenuto e iconografia, oppure solo per sentire emozioni e mettere in moto la fantasia. Le brevi note che abbiamo qui riportato vogliono essere solo uno stimolo a utilizzare anche questa meraviglia d’arte del passato per illuminare e alleggerire il peso del nostro presente: la bellezza riesce ad essere uno strumento potente per allontanarci, anche solo per poco, da una realtà opaca e limitante perché, tra non molto, il Palazzo Ducale ritornerà ancora nostra meta.
Gianfranco Ferlisi
Salone delle guardie – Il gruppo dei musici
Il suonatore di “chitarrone”
Dettaglio con stemma
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