Carlo Bononi (Ferrara?, 1569/1580? – Ferrara, 1632), Nozze di Cana, 1622, olio su tela
cm 355 x 688 – Ubicazione: Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Sala 10
Osservando lo splendore del gran desco delle Nozze di Cana di Carlo Bononi
La «gran tela delle Nozze in Cana di Galilea», ispirata all’episodio del primo miracolo di Gesù descritto nel Vangelo di Giovanni, monumentale opera di Carlo Bononi, fu collocata, nel 1622, nel refettorio del convento di san Cristoforo alla Certosa di Ferrara. Nell’opera l’artista realizzò il proprio autoritratto «in figura di Scalco», come ci tramanda Giuseppe Antenore Scalabrini nella sua guida del 1773. Ed è proprio a partire da tale figura (individuabile, a sinistra del riguardante, nell’elegante personaggio col cappello piumato) che possiamo iniziare a percorrere visivamente la tela, oltre il Cristo benedicente, sul tavolo imbandito, indugiando sulle scale, sulle balaustre, sui gesti dei commensali, dei musici e dei servitori. Le nozze di Cana ruotano, ovviamente, attorno alla figura del Messia, centro prospettico e tematico. Gesù, seduto a tavola accanto alla madre (che sembra chiaramente dire «vinum non habent»), insieme con i due sposi, volge gli occhi verso il servo e, con la mano destra, platealmente alzata, trasforma l’acqua in vino. Il servo in primo piano ha riempito «d’acqua le giare» e non appena il Messia ordina «attingete e portatene al maestro di tavola» l’acqua è diventata vino.
La composizione è ambientata in uno spazio le cui caratteristiche architettoniche richiamano le veronesiane «scenografie da banchetto». In alto, al di là di una balaustra addobbata con un elegante drappo e che sovrasta il tavolo degli sposi, l’artista ha collocato otto musici, che si muovono in coerenza con l’idea di stupore e di emozione suggerita dalla messinscena, contemporaneamente miracolistica e mondana. Appena sotto la balaustra, al centro, si colloca lo stemma che rimanda ai committenti: i Certosini di San Cristoforo. Nel contesto aulico, nell’affollarsi delle figure e nel loro incrocio di sguardi, nell’affanno dei servi e dei camerieri preposti al convito, nella gioiosa presenza di due cani e un gatto, che fanno preda degli avanzi, risalta appunto la figura dello scalco.
Miei cari «venticinque lettori», vi invito a sfogliare insieme con me un trattato del periodo che abbia a tema le arti del banchetto rinascimentale, per leggere che «tre sono le officii honorati, cho sogliono dare li principi grandi per la cura della bocca loro, cioè del scalco, del coppiero e del trinciante, ed ogni uno di questi non si suol dare, se non a persone molto nobili, fidate e domestiche» (Vincenzo Cervio, Il trinciante, 1581). Lo scalco era, in poche parole, il regista del banchetto principesco, che aveva rituali e ruoli ben precisi e complessi.
Sulla tela, se si escludono le vesti della Madonna e del Cristo, i cui mantelli azzurri simboleggiano il cielo (mentre le tuniche rosse ribadiscono la loro natura sacra), tutti i commensali hanno un abbigliamento di gusto nobile e patrizio. Per questa ragione la descrizione della nostra storia si soffermerà ora sui temi del cibo, del banchetto, della festa, per scrutare «quel gran desco» che splende in tutto il suo spettacolo di magnificenza. Per gli invitati alle nozze Carlo Bononi ha imbandito una tavola sontuosa, che già si esalta nell’esotica sotto tovaglia rossa, riccamente ricamata e ornata, e nella tovaglia bianca di fiandra, fresca di stiro. E, ad accrescerne la fastosità, ecco i vasellami preziosi, le pietanze, che sfilano davanti ai nostri occhi e che richiamano alla delicatezza del momento in cui è venuto a mancare il vino, il momento del «dolce».
Si assiste poi, in una dimensione teatrale dell’arte e della vita, tra il fantastico e lo strabiliante, a un ampio campionario di frutta e dolci: fichi secchi e ripieni, mele renette glassate, pere cotte, scorze d’arancia candite, ofelle dolci, biscottini, confetti e altre leccornie, facilmente asportabili con gli stecchini che vi sono infissi. La sposa, col capo adorno di fiori intrecciati a perle, una ghirlanda nuziale, con le vesti signorilmente ricamate e morbide, è colta appunto, in gesto elegante, con lo stecchino in mano, dopo l’assaggio. Accanto al Cristo lo sposo, cinto da una corona (che lo magnificava come Abramo, lo benediva come Isacco, lo augurava fecondo come Giacobbe), osserva, tra il compiaciuto e lo stupefatto, l’andirivieni di paggi e coppieri intorno al gran desco nuziale.
Ai lati, sulle credenze, evidenti nelle loro caratteristiche di rappresentanza, abbondano le ricche piattaie e non mancano brocche e bacili per l’abluzione delle mani.
Il racconto della magnificenza a tavola va qui, dunque, oltre il tema del sacro e si addentra nel profano, nelle citazioni delle regole del convito seicentesco, nel tema del bel servire, nella ritualità della messa in scena, nella metafora di ogni liturgia nuziale che, anche nella dovizia del banchetto, si lega agli auspici di prosperità connessi all’unione coniugale.
Gianfranco Ferlisi
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