La fotografia è l’impronta lasciata dalla luce su una superficie sensibilizzata. Condivide la sua natura di impronta con altre opere protagoniste della mostra, che racchiude questo termine anche nel proprio titolo.
Il fossile di una pianta, le riproduzioni ottenute con la tecnica del disegno fotogenico, della stampa naturale e del cianotipo, le impronte reali delle mani e dei corpi degli artisti e quella simbolica del piede della Madonna (inv. 4607), sono opere che rientrano in una storia della produzione delle immagini che non è ancora stata scritta.
La produzione di immagini tramite impronta è infatti stata censurata, in primis da Giorgio Vasari, il pittore e biografo che nel Cinquecento codificò i parametri della nuova disciplina storico artistica. La mano dell’artista, attraverso il disegno, esprime l’idea creatrice: l’opera d’arte si ha solo all’interno di questo processo che pone al centro l’uomo e la sua idea quali unici possibili creatori. Non a caso Vasari, – pur dando spazio all’incisione, anche se non come arte autonoma -, nelle sue Vite ha dato poco valore ai metodi di riproduzione dell’immagine per impronta, che invece erano ampiamenti utilizzati dagli artisti, in particolare nelle botteghe degli scultori: ad esempio in quelle di Lorenzo Ghiberti, Donatello, e del modenese Guido Mazzoni (inv. 4178).
Alcuni studiosi, però, nel tempo, hanno riconsegnato la tecnica dell’impronta al suo giusto ruolo, evidenziando anche il suo portato di significati teorici. Innanzitutto Aby Warburg, che studiando i ritratti fiorentini del XV secolo ha mostrato il ruolo che ebbe la produzione di calchi del viso, maschere mortuarie e statue di cera, scalfendo la concezione di una purezza ideale del Rinascimento che rifuggiva le arti meccaniche. Quindi la storica dell’arte modenese Adalgisa Lugli, che nelle monografie su Guido Mazzoni e Medardo Rosso dà valore ad artisti che usano ‘materiali teneri, cera, gesso, terracotta e bronzo, come trasposizione in una materia che salvi in piena coerenza le caratteristiche delle sostanze da cui è partito il modello’ (A. Lugli, Guido Mazzoni, Prefazione). Infine le riflessioni di Georges Didi-Huberman, che indaga, dalle impronte delle mani nelle grotte preistoriche alle opere di Duchamp, il senso profondo di questo procedimento. Il potere dell’impronta sta nel fatto che ci riporta il passato non solo visivamente ma anche dal punto di vista tattile. Una pianta, un animale, un artista hanno toccato questa superficie. Proviamo l’emozione della loro presenza e contemporaneamente il lutto per la loro perdita. Perché l’impronta è sia il contatto con l’originale che la sua perdita.
Silvia Urbini
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