La video-installazione visibile nella Sala dei Verdi del Palazzo Ducale di Sassuolo, intitolata L’importanza di chiamarsi Francesco, nasce in occasione del Festival Filosofia, quest’anno dedicato al tema della «persona». In una libera rivisitazione della celebre commedia di Oscar Wilde (L’importanza di chiamarsi Ernesto, scritta e rappresentata per la prima volta nel 1895), tre ologrammi fanno rivivere tre duchi estensi di nome Francesco.

Come indicato dal sottotitolo, si tratta di un «dialogo impossibile», dal momento che Francesco I, II e III vissero in diversi periodi storici e non ebbero mai modo di conoscersi. Francesco I nacque nel 1610 e morì nel 1658, e fu duca di Modena dal 1629, cioè da quando il padre Alfonso III abdicò in suo favore per farsi frate cappuccino. Francesco II, nato nel 1660 da Alfonso IV e Laura Martinozzi, era nipote di Francesco I e scomparve nel 1694 senza lasciare eredi. Per questo il trono passò al fratello di Francesco I, Rinaldo d’Este, che abbandonò la porpora cardinalizia per guidare il ducato. Figlio di quest’ultimo, Francesco III nacque quattro anni dopo la morte di Francesco II, nel 1698, per spegnersi nel 1780.

Questo incontro storicamente improbabile, ambientato proprio a Sassuolo, permette ai tre duchi di narrarsi e di confrontarsi in un dialogo serrato e pungente, specialmente sul terreno della committenza artistica. Emergono così i diversi profili dei sovrani, i loro gusti e le loro passioni ed è possibile leggere in filigrana anche le differenti congiunture politiche che si trovarono a fronteggiare. Francesco I, cui si deve la grande raccolta di opere d’arte della Galleria Estense (ottenute in modo non sempre lecito), fu promotore di grandiosi cantieri che trasformarono Modena in degna capitale del ducato. Dopo la perdita di Ferrara nel 1598 e il governo di Cesare d’Este, infatti, fu lui a mettere in campo una serie di iniziative che permisero al casato di recuperare credito (e reputazione) nel fragile scacchiere europeo, sconvolto dalle guerre tra Francia e Spagna. A lui si devono le trasformazioni dei vecchi castelli del ducato in corti signorili, ovvero il Palazzo Ducale di Modena e quello di Sassuolo, e le prestigiose committenze ai più quotati artisti del tempo. Per queste ragioni Francesco I figura nella commedia come sovrano integerrimo, bellicoso, serioso e – per esigenze di scena, ma forse in modo non del tutto inverosimile – briosamente vanesio.

Al di là di ogni tipizzazione “da copione”, Francesco II è invece la perfetta incarnazione del dandy ottocentesco (con ben due secoli d’anticipo!). Dopo aver spodestato la madre Laura Martinozzi, reggente in suo nome fino al 1674, preferì lasciare le redini del governo al cugino Cesare Ignazio per dedicarsi all’ozio, alla caccia, alla collezione di meraviglie e alla sue sfrenate passioni per i cavalli e per la musica, di cui fu straordinario promotore.

Bigotto, altezzoso e un po’ tirchio è invece nella pièce il duca Francesco III, cui i modenesi non hanno mai perdonato la svendita all’elettore di Sassonia dei cento dipinti più belli della quadreria di famiglia. Va però detto che quelli erano anni ben diversi e che grazie al suo governo illuminato Modena si arricchì di edifici grandiosi come il Grande Albergo dei Poveri e il Grande Spedale di Sant’Agostino.

Nell’installazione il testo di Wilde si fonde così a citazioni tratte dai documenti del tempo: frasi scritte di pugno dagli stessi duchi o riferite dai loro fedelissimi segretari. L’importanza di chiamarsi Francesco offre dunque allo spettatore uno spaccato di quei secoli storicamente fedele e, al contempo, ne permette un coinvolgimento quanto più scherzoso. Se le moderne tecnologie digitali solleticano la meraviglia (la stessa che connotò l’arte barocca), l’improbabile dialogo tra i tre “Franceschi” ambisce a suscitare un sorriso arguto nella scoperta di tre dei massimi protagonisti della storia estense.

 

Simone Sirocchi, storico dell’arte