Il poema franco-italiano Attila Flagellum Dei di Nicolò da Càsola ci presenta la figura del signore degli Unni sotto una luce molto diversa da quella cui la tradizione storiografica e leggendaria ci ha abituati. Infatti, il “Flagello di Dio” non è qui il tiranno sanguinario responsabile dell’uccisione di sant’Orsola e delle undicimila vergini presso Colonia, sconfitto nella battaglia di Châlons del 451, e non è neppure il condottiero che lascerà il territorio italiano, ritirandosi dopo i saccheggi e le devastazioni, in seguito all’incontro con papa Leone I presso il fiume Mincio, e che poi morirà in patria per soffocamento dovuto ad un’epistassi copiosa la notte delle sue ennesime nozze con una giovane fanciulla (ma secondo alcuni storici sarebbe stata proprio lei ad uccidere il terribile sposo). Non coincide neanche con la figura di Atli delineata nelle saghe dell’Edda poetica, pugnalato a morte nel letto nuziale dalla moglie Guðrun per vendicare l’uccisione dei suoi fratelli Gunnarr e Högni, dopo che lei gli aveva addirittura imbandito le carni dei loro due figli (si ricorderà il mito analogo di Atreo e Tieste). L’Attila di Nicolò non è nemmeno identificabile con il sovrano di probi e morigerati costumi tratteggiato dall’unico testimone oculare di cui ci sia giunta testimonianza, l’ambasciatore presso gli Unni Prisco di Panion.
No, in questo poema-fiume della seconda metà del Trecento (37535 vv., per di più incompiuto, probabilmente a causa della morte dell’autore), di cui la Biblioteca Estense conserva l’unico testimone manoscritto, il Flagello risente invece di una tradizione del tutto peculiare, sviluppatasi nella regione veneta a partire dal XIII sec., la quale lo raffigura come movente negativo che avrebbe indotto le popolazioni dell’entroterra a migrare verso le lagune, di Grado (gli Aquileiesi) e veneta (i Padovani principalmente, oltre alle genti di molti altri centri). In quel periodo di massimo fulgore politico ed economico di Venezia, con la conquista grazie alla IV Crociata di una posizione preminente nel Mediterraneo orientale, diventa necessario per la Serenissima dotarsi di un mito fondatore che esalti la genesi della città e la renda fruibile in un quadro così nuovo e vasto. E non è un caso che la lingua adottata per diffondere e far conoscere questo nuovo mito sia proprio il francese, declinato in una sua particolare varietà, intrisa di influssi italiano-settentrionali e debitrice della koiné francofona che si era venuta ad instaurare proprio nelle regioni del Mediterraneo orientale e del Vicino Oriente con le Crociate (il cosiddetto Outremer), diventando in sostanza una “lingua franca”, esportabile in tutto il mondo allora conosciuto. Infatti, la fonte prosastica stessa del poema di Nicolò, il Romanzo di Attila di metà Duecento, composto probabilmente appunto in ambiente veneziano, è uno dei primi testi franco-italiani a noi noti, e si inscrive perfettamente in quel tempo in cui Venezia dominava i mari e l’ex- (temporaneamente) Impero Bizantino. Il poema di Nicolò fa invece parte della tradizione franco-italiana trecentesca ormai non più attivamente in contatto con la sfera linguistica “viva” del francese dell’uso, nell’ambito della quale in buona sostanza il mezzo è anche il messaggio: epica in versi e romanzo in prosa, in altre parole, si scrivono in francese perché vengono dalla Francia e hanno matrice originariamente francese.
Ma chi è l’autore? Il nostro nasce, presumibilmente in una data compresa tra il 1313 e il 1318, in seno ad una famiglia di notai bolognesi, e fu notaio egli stesso. Momento centrale della sua biografia è il 1350, anno della cessione di Bologna dai Pepoli ai Visconti, in seguito alla quale l’autore emigrò e si diede, a suo dire, ad una serie di peregrinazioni nella regione veneta, in Friuli, in Istria e in Cadore. Nel corso di questi viaggi egli avrebbe trovato la cronaca latina della vicenda attilana, stesa da un chierico di Aquileia e di Concordia, che Nicolò avrebbe tradotto in rime francesi nel corso del suo soggiorno presso gli Este a Ferrara dal 1358 in poi. La fonte, effettivamente, esiste, come detto prima, ma è già stesa in franco-italiano e viene enormemente dilatata dal nostro, che aggiunge battaglie, scontri campali e moltissime figure maggiori, minori e minime, che vanno a popolare fittamente i suoi versi – si può dunque parlare, in questo caso, dell’adozione da parte di Nicolò del tópos del manoscritto ritrovato, che tanta fortuna ebbe nella letteratura cavalleresca italiana successiva. L’autore è poi probabilmente morto dopo il 1373, l’ultima data desumibile dalla sua opera incompiuta, dato che egli accenna all’uccisione del condottiero Ambrogiolo Visconti, avvenuta nel corso di una spedizione repressiva contro i Bergamaschi proprio in quell’anno.
E veniamo al poema: esso è il primo esempio a noi noto di letteratura encomiastica scritta per la famiglia degli Estensi. Anzi, l’Attila Flagellum Dei è dedicato non solo al marchese Aldobrandino III d’Este, ma anche a suo zio, il barone Bonifacio degli Ariosti, progenitore proprio del Ludovico autore dell’Orlando Furioso. L’opera tratta dell’invasione dell’Italia di metà V sec. in modo appunto assolutamente peculiare, poiché contrappone agli immensi eserciti del Flagello tutto un ceto di nobili e re italiani, con i loro paladini e compagni d’armi, del tutto privo di qualunque appiglio storiografico, che risentirà dell’epica e del romanzo di matrice francese, carolingia e arturiana, e che dipende in prima istanza proprio dalla fonte, il Romanzo di Attila in prosa. Sono giusto i re e i baroni italiani, tra l’altro, a inviare alle lagune gli inabili alle armi, come primo nucleo colonizzatore da cui si sarebbero poi sviluppati gli insediamenti stabili. La stessa figura di Attila tratteggiata nell’opera risponde nei suoi contorni in parte alla fonte prosastica, ma nella sostanza è fortemente innovata da Nicolò. Se, infatti, il Flagello, allo stesso modo che nel romanzetto in prosa, è figlio del connubio ferino tra una principessa ungherese rinchiusa per punizione dal padre in una torre e un levriero donatole dal genitore come compagnia, nel prosieguo del poema viene invece irretito dall’amore per una maga-principessa orientale di nome Gardene, la quale prima gli si promette come sposa, ma poi, visto il superiore valore dei combattenti cristiani, lo tradisce per amore dell’estense Acarin, e lo attira in un’imboscata che quasi gli è fatale. Inoltre, se nella prosa Attila può essere interpretato da un lato come predecessore degli Ungheresi, fieri avversari di Venezia nel corso del Duecento, dall’altro come figura del vicario imperiale tiranno della Marca Trevigiana Ezzelino da Romano, nel poema espressamente Nicolò lo caratterizza come allusivo al biscione dei Visconti, non soltanto avversari degli Este ma personalmente odiati pure dall’autore, che a causa loro venne, come detto, costretto all’esilio. Tra i combattenti cristiani, centrale da un certo punto dell’opera risulta la figura del re di Padova Gilius, ma nel segmento dedicato alla battaglia di Aquileia rifulge di gloria un campione totalmente inventato da parte di Nicolò: l’estense Forest, indicato come leggendario progenitore della casata e modellato nelle sue attitudini sulla figura eroica di Ettore. Pure Forest morirà, anche se non come Ettore sul campo di battaglia, per le ferite riportate da uno scontro con il Flagello. La narrazione del poema, dopo gli assedi e le successive cadute maggiori di Aquileia, Concordia e Altino, si arresta prima della battaglia di Padova e della successiva ritirata verso Rimini dei Cristiani, laddove, nella prosa, Attila, introdottosi nella città sotto le mentite spoglie di un pellegrino per pugnalare Gilius con una lama intrisa di veleno, sarà da questi smascherato e decapitato (anche qui, in modo estremamente innovativo rispetto alla tradizione storiografica). Nel romanzo, poi, le schiere ormai prive del loro condottiero si ritireranno, non senza perdite causate anche da un esercito di Greci, verso le regioni pannoniche da dove erano partite.
Da ultimo, eccoci all’unico manoscritto testimone del poema, cartaceo e diviso in due tomi, conservato nella Biblioteca Estense: la scrittura corsiva, senza alcuna nobilitazione di stampo librario, e le cospicue e frequenti correzioni e aggiunte di porzioni di testo, inducono ad ipotizzare l’autografia del codice. Il testimone avrebbe probabilmente dovuto essere poi ricopiato in pergamena, stando a quanto dichiara Nicolò stesso, che afferma di aver scritto il poema in «çarte bergamine». È possibile, allora, che anche i pochi disegni (di cui qui avete qualche riproduzione, con didascalia), realizzati da più mani lungo parte dei due tomi, fossero destinati ad essere riprodotti “in bella copia” nel codice pergamenaceo più lussuoso, mai effettivamente realizzato. Nonostante tale stato di “non-finito” dell’opera, il codice cartaceo venne letto e il testo circolò, come dimostrano le numerose postille quattro-cinquecentesche di mani diverse apposte nei margini (riporto qui la riproduzione di alcune di esse), e probabilmente influenzò per certi versi lo stesso Matteo Maria Boiardo, autore dell’Inamoramento de Orlando, come la bibliografia critica non ha mancato di rilevare. Molto, però, sia sul poema che sul manoscritto, resta ancora da approfondire (e chi scrive è appunto impegnato nell’edizione critica e commentata e della fonte prosastica e del poema di Nicolò).
Andrea Beretta
CNR-OVI, Opera del Vocabolario Italiano
Assegnista di ricerca
Bibliografia minima
A. Beretta, L’Attila Flagellum Dei di Nicolò da Casola. Edizione del libro primo e studio della tradizione testuale su Attila in Italia, Dottorato di ricerca internazionale in Filologia e critica (curriculum: Filologia romanza), Università degli Studi di Siena, 2016, 2 voll. (nella tesi, oltre alla discussione della bibliografia pregressa, è compresa una descrizione dettagliata del manoscritto dell’opera di Nicolò).
A. Beretta, Sviluppi plurilingui dell’Atile en prose. Prolegomeni ad un’edizione, in «Francigena», 3 (2017), pp. 137-172 (sul Romanzo di Attila in prosa).
A. Beretta, Miti fondativi veneziani e tradizione attilana. Un’indagine di ermeneutica filologica, in Attila in Italia: dalla letteratura franco-italiana a Verdi (e oltre), Atti del Convegno di studi a cura di Gianfelice Peron, in c.d.s. (sulla cronachistica veneziana a monte del Romanzo di Attila).
A. Beretta, Nuove ricerche sull’Attila Flagellum Dei di Nicolò da Càsola, in «Zeitschrift für Romanische Philologie», in c.d.s. (sul poema di Nicolò).
E. Bozoky, Attila e gli unni. Verità e leggende, Bologna, Il Mulino, 2012 (repertorio moderno delle fonti cronachistiche e leggendarie su Attila).
G. Peron, “Filz au livrier”. Attila nell’epica franco-italiana, in Epica e cavalleria nel medioevo. Atti del Seminario internazionale, Torino, 18-20 novembre 2009, a cura di M. Piccat e L. Ramello, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011, pp. 27-53 (sulla figura dell’Attila franco-italiano, con intepretazioni poi rinnovate nell’ambito delle mie ricerche).
M. Villoresi, Boiardo lettore dell’Attila di Nicola da Casola?, in Il Boiardo e il mondo estense nel Quattrocento. Atti del Convegno internazionale di studi: Scandiano, Modena, Reggio Emilia, Ferrara, 13-17 settembre 1994, a cura di G. Anceschi e T. Matarrese, 2 tt., t. 1, pp. 195-222 (individua alcuni possibili collegamenti intertestuali tra il poema di Nicolò e l’Inamoramento de Orlando).
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