Benvenuto Tisi detto Garofalo (Ferrara, 1481 ca. – 1559), L’Antico e il Nuovo Testamento, 1523, affresco staccato e trasferito su tela, m. 390 x 825, sormontato al centro da una lunetta di m 2,57 x 1,82

Pinacoteca Nazionale di Ferrara

È un’opera colossale quella che osserviamo nella Pinacoteca di Ferrara, nel salone d’onore. È un affresco staccato che proviene dal refettorio del convento agostiniano di Sant’Andrea a Ferrara commissionato, nel 1522, come spiegano le fonti, a Benvenuto Tisi detto Garofalo e completato già l’anno successivo. Come un’antica Biblia pauperum, l’opera narra molteplici storie e sono le storie che noi cercheremo di riassumere perché il tessuto narrativo prende qui il sopravvento, come in un racconto infinito. Benvenuto Tisi rappresenta il «Trionfo della Chiesa cristiana sulla Sinagoga ebraica».  Il soggetto è assai frequente nelle chiese e nei luoghi di culto cristiani del periodo. Citiamo solo come esempi, l’affresco di Giovanni da Modena (Modena, 1379? – 1455?) intitolato, appunto, «Il trionfo della Chiesa sulla Sinagoga» (prima cappella a sinistra detta dei Dieci di Balìa nella Basilica di S. Petronio) e, dello stesso Garofalo, l’«Allegoria del Vecchio e Nuovo Testamento» (San Pietroburgo, Museo Ermitage, 1531-1535 ca.). Il Cristo di Garofalo, in questa esecuzione, raggiunge un risultato formale di eccezionale qualità. La sua figura si staglia sullo sfondo ed è bisettrice per due diverse rappresentazioni paesaggistiche: un vero punto di separazione tra l’area del vecchio e del nuovo testamento, tra l’antica e la «nuova alleanza». L’artista utilizza la vecchia iconografia della «croce vivente o brachiale», una iconografia che ritroviamo in un altro analogo «trionfo» a Mondovì nella chiesetta di Santa Croce. Dalle estremità della croce su cui il messia è stato inchiodato fuoriescono sei arti umani: quattro dal legno orizzontale, due, in basso, da quello verticale. Le quattro braccia superiori stringono tra le mani gli emblemi del potere «divino» nato dopo il sacrificio salvifico del messia: una corona, due chiavi per l’accesso al Paradiso e una spada che trafigge il petto della Sinagoga. Daniele Garrone, biblista, pastore protestante valdese e docente di «antico testamento» alla Facoltà valdese di Teologia, ha ben spiegato come funzionano tali immagini che poggiano su un esplicito antigiudaismo che dalla chiesa cristiana delle origini porta alle radici dell’antisemitismo del Novecento.
Ma osserviamo adesso con attenzione ciò che accade: da un braccio della croce esce un arto con una chiave spezzata (l’emblema muto sembra dire: cari miei, non avete più in mano gli strumenti della «salvezza!»). In alto, nella lunetta con la Gerusalemme celeste, fortificata da mura come quelle di Ferrara, la porta d’accesso è stata chiusa definitivamente e angeli armati con archi e balestre ne sorvegliano l’accesso. L’altro braccio, armato di spada, trafigge la greve e insicura figura femminile, personificazione della Sinagoga (gli Ebrei), una figura, priva dell’antica regalità (scettro spezzato,…), carente di comprendonio, bendata e a cavalcioni di un asino dai garetti feriti e in procinto di sprofondare in un avello.
L’antigiudaismo di questa immagine è confermata dalla vicina iscrizione elaborata in forma di «rebus». Cecid[it]+corona+testa+ nostri («Cecidit corona capitis nostri», scritta in forma di enigma che tradotta recita «La corona è caduta dalla nostra testa»). Se vi interessa approfondire siamo di fronte a una citazione che proviene dalle «Lamentazioni di Geremia» (5, 16).
Sullo sfondo, sotto un cielo plumbeo e fosco si intravvedono le rovine del tempio di Salomone. Più in là, appena sotto l’asino, Mosè (che si tratti di Mosè è indubbio perché da contratto dell’opera, all’inizio del settembre 1522, Garofalo si impegnò a dipingere «unum Cruciphixum cum figura Moisis secundum christianam legem») celebra riti sacrificali presso l’Arca dell’Alleanza (probabilmente la Teshuvah di Yom Kippur). Alla destra del crocifisso, la chiesa di Roma è invece raffigurata come una figura femminile sobria e giovanile che siede regale e vincitrice, con tanto di globo in mano che assume la dimensione simbolica dell’intero universo, circondata dal tetramorfo, raffigurazione iconografica delle quattro figure che rimandano agli evangelisti canonici: leone, toro, aquila e angelo. Stringe tra le mani il fiotto di sangue che, con energica pressione, scaturisce dal costato di Gesù e che, come una freccia, indica, poco oltre, i tre sacramenti del battesimo, della confessione e dell’eucarestia (è l’agostiniano san Nicola da Tolentino ad occuparsi del rito eucaristico). La civiltà dei sacramenti cattolici diventa contrappunto al culto della Torah, al mito  dell’arca dell’Alleanza (raffigurata in primo piano e sovrastata filologicamente da due cherubini di oro puro), alla Teshuvah (espiazione dei peccati), alla  Brit Milah (la circoncisione rappresentata dal bimbo attaccato a un tronco), al sacrificio animale… Antonio Costabili, committente dell’affresco,  compare presso il fonte battesimale, con un neonato (l’erede) tra le braccia. Appena sopra l’apostolo Paolo predica nell’Aeropago di Atene. A destra del crocifisso svolazza un lungo cartiglio che srotola una citazione del biblico Cantico dei Cantici: «veni, columba mea in foraminibus petre, …coronaberis de capite Amana, de vertice Sanir et Hermon […]»   (Ct. 2, Vieni, o mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia […]). Tutto è roseo e sereno nella zona del «nuovo testamento» mentre, alla base della croce, le ultime due braccia si muovono per aprire la porta del limbo per la redenzione dei giusti e per sigillare la porta dell’inferno.
Nella lunetta in alto, un vecchio barbuto (dio padre con tanto di emblema trinitario) approva il disprezzo rivolto ai Giudei, al «popolo testimone»: un orientamento teologico che discende, appunto, da Sant’Agostino. Il «trionfo» ha come contraltare il castigo «divino» inflitto al popolo «deicida», per il rifiuto del messia e per la sua morte. Gli Ebrei testimoniano così il trionfo della chiesa cattolica e ne fanno emergere la superiorità. Quello che era il popolo eletto diventa il popolo reietto, soppiantato dalla Chiesa che lo ha sostituito ed è divenuta il nuovo Israele.

Gianfranco Ferlisi