Il blog delle meraviglie
a cura di Simone Sirocchi
Coccoooo, cocco belloooo!
Come i fiori sui davanzali, di tanto in tanto mi sporgo, cercando di intercettare tutti i possibili raggi di sole, in questa primavera che ha già il sapore dell’estate. E al solo pensiero, la mente corre all’unico, vero suono che accompagna la sensazione della sabbia sotto i piedi, degli ombrelloni al vento e del profumo della crema solare (che è poi un tutt’uno con la fragranza del mare): mi riferisco alla voce, sempre più ravvicinata e distinguibile, del venditore di cocco, un frutto che fin da bambini ha sempre avuto, nella sua freschezza post-tuffo, dal primo all’ultimo morso, un non so che di esotico. E in questo, a dire il vero, non siamo cambiati di molto dal Seicento. Nella collezione del nostro Francesco II, tra le tante bizzarrie, si trovava anche una coppia di noci di cocco, ancora presenti nella Galleria Estense. Sono sostenute da una montatura in argento, a formare una sorta di piccola e curiosa fiaschetta, che ad ogni sorso portava con sé tutto il sapore delle nuove scoperte geografiche. Presenti in ogni stanza delle meraviglie fin dal Cinquecento, questi frutti erano chiamati «noci d’India», paese che allora indicava tanto l’Oriente che l’Occidente. I manuali scientifici avevano da tempo documentato la sensazionale varietà d’impiego delle palme da cui provenivano. Le foglie venivano trasformate in carta, la linfa era «spiritosa» come il vino ed efficacissima per inebriare – si diceva –, mentre con il legno del tronco si fabbricavano utensili vari, come le scale usate dagli «ortolani di quei paesi». Il frutto era anche chiamato «cocco di terra» per distinguerlo da una seconda tipologia di cocco, chiamata «di mare». Di cosa si tratta? Del «cocco delle Maldive» (o coco de mer, come ancora oggi è chiamato), uno dei frutti più giganteschi in natura, che solo nella seconda metà del Settecento si scoprì provenire dalle palme che crescevano esclusivamente su alcune isole delle Seychelles. Prima di allora, in Europa, erano circolati racconti leggendari su questa pianta, che si credeva crescesse sotto l’acqua del mare (per questo il frutto era chiamato cocco di mare) e si narrava che il frutto venisse lasciato sul bagnasciuga dalle onde, partorito dalla terra, e che fosse ricolmo di varie gemme, come madreperle, ametiste e topazi. Tra le sue varie proprietà, si diceva potesse scacciare il ferro (all’opposto di una calamita, per intenderci) e si erano diffuse notizie sul suo impiego come medicamento contro diverse malattie e addirittura contro i veleni. Ma non era finita qua! Anche la sua bizzarra conformazione aveva ammaliato i collezionisti di rarità del vecchio continente. Per la sua forma “callipigia” (vale a dire “dalle belle natiche”) questo cocco era stato nei secoli impiegato come potente afrodisiaco, prima di essere giudicato indecente nel Settecento, quando non mancò di scandalizzare i salotti europei. E una tale curiosità naturale, capace di evocare le conquiste cinquecentesche delle navi spagnole e portoghesi, poteva forse mancare nella raccolta estense delle meraviglie? Certamente no! E la ritroviamo, infatti, ancora oggi nella Galleria Estense. Si tratta, per la verità, di una metà della noce, elegantemente sostenuta da una struttura in argento dorato, con tanto di coperchio a formare una sorta di coppa. Documentata tra le raccolte ducali almeno dalla metà del Seicento, venne poi collocata negli armadi allestiti da Giovanni Donzi, proprio per l’esotismo magnetico e pulsante che questo frutto d’oltreoceano poteva ancora ispirare tra i vari oggetti che affollavano la galleria di Francesco II.
Ecco… ora mi è venuta una voglia matta di cocco!
Manifattura ignota, Fiasca, XVI secolo, noce di cocco e argento, Modena, Galleria Estense
Manifattura ignota, Coppa con coperchio, XVI secolo, cocco delle Seychelles, ottone, argento, Modena, Galleria Estense
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