Aveva poco più di vent’anni Tintoretto, quando dipinse i soffitti di Ca’ Pisani a San Paternian, primo suo grande ciclo decorativo a essere giunto fino a noi.

Secondo il suo biografo seicentesco Carlo Ridolfi, Jacopo era entrato ancora giovanissimo come apprendista nella bottega di Tiziano e ne era stato cacciato dopo soli dieci giorni per aver ingelosito il più anziano maestro col suo precoce talento. Desideroso “di farsi pratico nel maneggiar colori” Tintoretto avrebbe così cominciato a frequentare “ogni luogo ove si dipingesse” e in particolare i pittori ‘di strada’ che avevano le loro botteghe di modesti artigiani in Piazza San Marco, dedicandosi alla decorazione di arredi, soffitti e facciate di edifici. Probabilmente frutto di invenzione, questi episodi della biografia di Tintoretto hanno tuttavia come fondamento l’indubbia ostilità che Tiziano ebbe sempre nei confronti del più giovane artista e l’orgogliosa affermazione di quest’ultimo di non avere avuto maestri.

Fra il 1539 e il 1542, quando Tintoretto cominciò la sua attività professionale, la decorazione d’interni era tuttavia al centro dell’attenzione a Venezia per l’arrivo in città di alcuni fra i maggiori maestri della maniera centroitaliana – Giovanni da UdineFrancesco Salviati e Giorgio Vasari – che lasciarono nei soffitti di alcuni palazzi dipinti che sembravano sfondare le pareti con effetti illusivi e figure colte in difficili scorci dal basso. Lo stesso Tiziano fu costretto a misurarsi su questo terreno, a lui meno congeniale, quando dipinse i soffitti della chiesa di Santo Spirito in Isola. E su questo campo il giovane Jacopo, che le fonti ricordano tanto desideroso di affermarsi, portò la sua sfida al maestro.

Un’opportunità gli si presentò quando Vittore Pisani, probabilmente in occasione del suo matrimonio con Paolina Foscari nel 1542, gli affidò l’incarico di dipingere un soffitto nel suo palazzo nella parrocchia di San Paternian. Vittore era un intraprendente banchiere in piena ascesa e in cerca di nuovi talenti che in quegli stessi anni aveva affidato la costruzione della sua villa a Bagnolo a un ancora ignoto Andrea Palladio. Il soggetto scelto per il soffitto del palazzo furono le Metamorfosi di Ovidio, una sorta di enciclopedia poetica dei miti antichi scritta in versi latini, divenuta popolare grazie all’edizione illustrata e tradotta in volgare da Nicolò degli Agostini, più volte ristampata a Venezia dal 1522.

L’ambizione del committente e quella dell’artista si incontrarono e, senza preoccuparsi troppo dell’unità dell’insieme, Tintoretto si cimentò in un tour de force di anatomie atteggiate in virtuosistici scorci, ispirandosi alle opere degli allievi di Michelangelo e Raffaello in laguna, a quelle di Giulio Romano forse viste a Mantova, ma anche a soffitti e affreschi oggi perduti di Pordenone, che nel decennio precedente era stato l’unico artista in grado di contendere a Tiziano la supremazia in città.

Ecco dunque apparire sui soffitti di Ca’ Pisani il vertiginoso sottinsù di Deucalione e Pirra, unici sopravvissuti al diluvio universale, che chiedono all’oracolo come rigenerare la razza umana; ecco il nudo di Fetonte che precipita a capofitto assieme ai cavalli e ai rottami del carro del Sole e la corsa sospesa nel vuoto di Ippomene, che si appresta a tagliare il traguardo vittorioso. Ecco il gesto drammatico di Tisbe che si getta sulla spada con cui si è appena ucciso l’amato Piramo e quello con cui Niobe, impietrita dal dolore, chiede inutilmente pietà per i figli ad Apollo e Diana. Ecco i corpi in torsione di Apollo e Marsia impegnati nella loro sfida musicale, di Latona che trasforma in rane i contadini della Licia, di Europa rapita da Giove e della sua ancella, così simili a Sibille michelangiolesche. In altri dipinti della serie Tintoretto dimostra in superficie le sue doti di colorista, come nei due nudi a confronto dell’Apollo e Dafne, l’uno inguainato nella veste e l’altra già coperta di corteccia; o nello sfondo fiammeggiante dell’Orfeo che implora Plutone e in quello di Giove e Semele, dove il nudo scomposto della donna ricorda le bagnanti, nello stesso tempo tragiche e ironiche, dipinte da Picasso negli anni trenta del Novecento.

Un paio d’anni più tardi Pietro Aretino, il più influente e temuto critico d’arte della sua epoca, avrebbe acutamente individuato le ragioni del futuro successo dell’artista lodandone le opere “E belle, e pronte, e vive, in vive, in pronte, in belle attitudini” (…) “da voi così giovane quasi dipinte in meno spazio di tempo che non si mise in pensare al ciò che dovevate dipignere” e il sapiente uso del chiaroscuro da parte dell’artista, grazie a cui “le figure ignude e vestite mostrano se medesime ne i lor propri rilievi”. Quella rapidità d’esecuzione nel realizzare immagini di grande impatto visivo e cariche di energia compressa, che avrebbero fatto di Tintoretto uno degli artisti preferiti dai grandi committenti veneziani della sua epoca e un precursore della pittura moderna.

 

Marcello Toffanello