L’identità del committente dell’Et in Arcadia ego di Guercino risulta ancora oggi sconosciuta.

 

Esistono diverse ipotesi a riguardo. Una delle più accreditate individua la personalità di Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII. Egli sarebbe entrato in possesso della tela nel 1622, appena un anno dopo l’arrivo a Roma di Guercino. Tuttavia, non è chiaro se sia stato proprio lui a commissionare l’opera al pittore o se l’abbia acquistata successivamente, colpito dal tono poetico dell’iscrizione. Il concetto di vanitas che emerge dal dipinto, non doveva essere del tutto sconosciuto a Maffeo Barberini, che si era dedicato alla stesura di alcuni sonetti trattanti proprio questa tematica.

 

Negli anni del pontificato di Urbano VIII, l’artista ebbe importanti rapporti con alcuni membri della famiglia Barberini, in modo particolare con il nipote del papa, il cardinale Antonio Barberini. Et in Arcadia ego potrebbe anche essere stato acquisito da lui: il quadro viene infatti citato per la prima volta nel suo inventario del 1644.

 

L’ipotesi è avvalorata dal fatto che Guercino dipinse per il prelato altre opere, come David e Abigail realizzato nel 1636, e andato distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale.

 

Nei secoli successivi, la tela continuò a far parte della collezione di famiglia, come riportato negli inventari settecenteschi di Carlo e Francesco Barberini.

 

All’inizio del XIX secolo, passò nella raccolta dei Colonna di Sciarra, un ramo della dinastia Barberini. Infine, nel 1897, l’opera venne acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma, avente come sede palazzo Barberini.

 

Un’ulteriore ipotesi ha come protagonista padre Mirandola, mecenate del pittore e uomo di grande cultura, operante a Cento. Guercino potrebbe aver ricevuto da lui la richiesta di un dipinto dal tema moraleggiante. Al canonico sono infatti attribuiti alcuni scritti, in cui emergono le tematiche del tempo, della morte e della provvisorietà della vita sociale. Tra questi si ricorda la Gabella della morte, il cui frontespizio riportava un’immagine tratta dalla tela del pittore bolognese Francesco Curti. La scena mostrava la morte, rappresentata da uno scheletro, che afferra una donna, mentre il tempo, personificato da un uomo con due stampelle e una clessidra sulla testa, si allontana lentamente.

 

Il committente potrebbe anche provenire dalla cerchia di Mirandola, di cui era parte ad esempio padre Pederzani che accompagnò l’artista a Venezia nel 1618. Il pittore in questo viaggio rimase profondamente colpito dall’operato dei grandi maestri lagunari come Giorgione e Tiziano. Potrebbero essere stati proprio questi spunti artistici d’area veneta e la vicinanza di padre Pederzani a spingere Guercino a realizzare il dipinto.

 

Nel corso della sua carriera, l’artista centese operò anche a Ferrara, prestando servizio per importanti committenze pubbliche e private. Tra queste si ricordano Il Martirio di San Maurelio, commissionato dai padri olivetani nel 1636, per la cappella di San Maurelio nella basilica di San Giorgio, e la Cleopatra, realizzata tra il 1637 e il 1639, e acquistata dal marchese Fiaschi per la sua collezione privata.